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  • chiarapesentiagost

Sospesa sul baratro.

Ancora non era riuscita a capire come fosse finita in quel luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, e perfino dal navigatore satellitare. Unozio, il fratello di Miomarito, aveva una casa in quel paesino di montagna dove ormai osavano solo le aquile e i ventidue abitanti, per la maggior parte ottuagenari, che ancora vi risiedevano. Gli piaceva la quiete irreale di quel posto sperduto, la ruvida ospitalità dei montanari, le montagne che sbucavano dalle nubi al mattino presto. Quell’anno aveva tanto insistito perché Miomarito, Cheddonna e IlPrincipe lo raggiungessero per la tradizionale gita di Pasquetta, e aveva voluto sbilanciarsi invitando anche la Fulvia con il piccolo Ernesto, detto “Che”. Cheddonna aveva già preparato la scusa d’ordinanza, ma constatando che la Fulvia aveva già risposto all’ invito con insospettabile entusiasmo, aveva finito con l’accettare anche lei, ed ora era lì, sospesa su un baratro, a chiedersi chi mai gliel’avesse fatto fare. Ma facciamo un passo indietro: dopo il pic nic, Unozio aveva proposto una breve passeggiata su un sentierino facile facile in mezzo ai boschi, e si era offerto di portare lo zaino con dentro il piccolo “Che”, gesto che la Fulvia aveva apprezzato moltissimo. Se non fosse per il fatto che il sentierino in questione era tanto stretto da consentire il passaggio di una sola persona alla volta, e si affacciava su di un burrone costellato di rocce e alberi d’alto fusto. Cheddonna aveva scoperto in quel preciso momento di soffrire di vertigini, ma non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, perciò continuò a camminare guardando bene dove metteva i piedi, ostentando sicurezza. Arrivata alla meta, un piccolo rifugio alpino, la comitiva si riposò un poco, lasciando il “Che” libero di sgambettare sul prato e presto giunse l’ora di far rientro a casa. IlPrincipe fu il primo ad avvistarlo: un enorme faggio era caduto sul sentiero, sbarrando loro il passo. “Figo!” esclamò, e prima che qualcuno riuscisse ad impedirglielo si era arrampicato sul tronco ed era passato dall’altra parte. Miomarito, un po’ sorpreso ma segretamente fiero dell’ agilità del figlio, gli andò dietro fingendo di volerlo sgridare e, con qualche sforzo, oltrepassò l’ostacolo. Poi fu la volta della Fulvia, che dopo aver passato il “Che” a Miomarito, scavalcò agilmente il tronco. Unozio volle rimanere a chiudere le file e incitò Cheddonna a precederlo. L’albero, lungo una quindicina di metri e largo circa uno, giaceva pesantemente adagiato sul sentiero, con la chioma a penzoloni sopra il dirupo. “Io di qui non passo ” si irrigidì Cheddonna, completamente incapace di muovere un muscolo. “Faccio il giro di sopra, dove ci sono le radici…” “Impossibile” la contraddisse Unozio. “Passare da lì è troppo pericoloso. Potresti scivolare a valle e…” “Ma io non ce la faccio!” strillò, in preda a quello che iniziava a essere autentico panico. “Non preoccuparti, Cheddonna,” ed estrasse dallo zaino una roncola che utilizzò come rudimentale gradino sul quale far issare la cognata, e un’imbragatura completa di moschettone, per metterla in sicurezza. “Ecco, metti un piede qui, fai un passo là e...oplà!” e per un attimo, che le sembrò eterno, Cheddonna si ritrovò sospesa sul baratro, a cavalcioni di un albero divelto. La prima cosa che vide, dopo la mano di Miomarito che la attirava a sé

, fu lo sguardo della Fulvia, che guardava con occhi adoranti Unozio in versione Bear Grylls e pensò che, in fondo, ne era valsa la pena.


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